Istanbul, storia di un amore lungo 21 anni

Istanbul, estate 1996. Ricordi lontani di una città caotica in una vacanza certamente poco rilassante: per i miei genitori e la mia famiglia, che decisero di portarci ad ammirare la storica Capitale dell’Impero Romano d’Oriente durante una crociera; per me, che allora avevo poco meno di 9 anni. Tra i pianti di mio fratello di tre anni sulle spalle di mio padre, e l’ansia di mia madre in una piazza gremitissima di gente che parlava una lingua sconosciuta, ricordo solamente altre 3 cose: le barbe lunghe stile ottomano di tanti uomini e ragazzi, tanto lontane dai canoni estetici degli anni 90 italo-europei; un edificio imponente, con tante torri a punta, che mio padre continuava a chiamare “Moschea Blu” (ricordo che quando gli feci notare che di blu aveva poco o nulla mi fece un grande sorriso, perché verosimilmente lo presi in contropiede); una maglia giallorossa, di una squadra dal nome strano ma così musicale, che stranamente mi colpì (visto che nella mia famiglia romana, a parte me e mio padre, quasi tutti tifano per la Lazio).

Istanbul, maggio 2005. Una serata che ogni tifoso milanista vorrebbe cancellare dai propri ricordi, ma che rimarrà indelebile come un tatuaggio che puoi cercare di cancellare, ma i segni ti rimarranno sempre. Per me non sarà mai possibile, visto che uno dei miei amici tornò a Roma con un regalo: quella maglia “giallorossa” che dopo 9 anni torna nella mia vita. Io che di Istanbul e del Galatasaray vedevo ogni tanto qualche immagine in tv, me ne innamorai talmente tanto che mi ripromisi di tornarci.

Valenza, 7 luglio 2014. Dopo mesi passati a fare progetti, io e il mio amico Federico saltiamo in sella alle nostre biciclette, decisi ad attraversare la Pianura Padana e a “rotolare verso sud” lungo la litoranea balcanica: 40 giorni di pedalata, di fatica ma anche di recupero mentale e psicologico dopo un anno che non mi ha portato via solo energie mentali e fisiche, ma anche una persona a me molto cara. Il viaggio fu bellissimo, e naturalmente non sono mancati diletti calcistici per Federico e me, che pochi mesi prima diventavo ufficialmente giornalista. L’esperienza allo Stadio Poljud di Spalato, a fianco a diversi esponenti della Torcida che ci ospitarono per l’occasione, rimarrà sicuramente nella mia mente, così come la visita allo stadio del Sarajevo, ma nella mia testa avevo solamente la destinazione finale. Quale? Ve la lascio immaginare.

40 giorni di pedalata dicevamo, 40 giorni di un’estate caldissima (mentre in Italia il maltempo imperversa e, col senno di poi, questa cosa era da interpretare come il segno di un vecchio me che volevo lasciarmi alle spalle): 40 giorni e svariate forature (solo io forai nell’intera esperienza) arriviamo a Ipsala, al confine greco-turco. Le lacrime mi bagnavano il viso perché sapevo di aver compiuto un’impresa, che nessuno si sarebbe immaginato da me, ma perché sapevo che la mia Istanbul era finalmente vicina. Le 3 forature in un giorno (compresa l’esplosione di un copertone), mi indussero a evitare gli ultimi 200 km in bici, per questo lasciai Federico a Ipsala, in attesa di rivederci due giorni dopo: troppa la voglia di arrivare a Istanbul. 18 anni di attesa si fecero sentire, nel cuore, nello stomaco, nella pancia.

Arrivare la sera alla stazione dei pullman, senza soldi e senza sapere come arrivare a casa di Mehmet (che ci avrebbe ospitato), non mi lasciava altra opzione se non inforcare la bici e dirigermi, a tentoni, verso Piazza Taksim, dove mi sarebbero venuti a prendere. Andare in giro in bicicletta ad Istanbul, con le luci del tramonto e poi della sera, rese tutto più romantico: vidi, risalendo verso Taksim, il cantiere di quello che scoprii essere la futura Vodafone Arena del Beşiktaş e lo stadio del Fenerbahçe, visto che Mehmet abitava allora a Üsküdar e l’avveniristica Marmaray ci fece scendere a Kadıköy.

Nei giorni che seguirono, visitai il quartiere di Galata e potete immaginare come il mio cuore potesse essere gonfio di gioia. Le bandiere cimbom su tutte le finestre, il negozio in cui flirtai con la maglia del Galatasaray a più riprese, prima di capitolare e spendere gli ultimi soldi rimasti facendo la conta affinché riuscissi a incastrare, nelle ragnatele del mio conto sempre più tendente allo zero, il volo che mi avrebbe riportato a casa. Anche se io, a casa, mi ci sentivo, lì, a Istanbul, in quella città in cui nel corso dei millenni passati, altri romani (quelli con la R maiuscola) erano arrivati con il loro impero: Istanbul, in effetti, è un po’ come Roma, con il suo traffico, con il suo caos, con la sua gente e con il suo tifo colorito… Perché è vero, noi italiani e i turchi ci assomigliamo molto: dal profondo senso dell’accoglienza all’amore per il calcio, ci separano solo poche migliaia di kilometri o tante miglia nautiche.

In fondo anche il barbiere che mi tagliò, 18 anni dopo la prima esperienza a Istanbul, il barbone cresciuto a dismisura che mi aveva accompagnato per i 55 giorni totali di viaggio, si confuse: poche parole di turco imparate durante il viaggio, e quel senso di goliardia e scanzonatezza tipicamente romana, mi rendevano un perfetto turco nel cuore, che potrà dire un giorno ai suoi figli:

Prima di andare a vedere Galatasaray-Milan, vi porto a vedere la Moschea Blu.

E chissà, pur conoscendo la risposta, magari lascerò il dubbio anche a loro sul perché di quel nome, in modo che possano appassionarsi anche loro alla Turchia, come successe a me in quella lontana estate 1996.

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